Ada Negri

3 febbraio 1870, Lodi
11 gennaio 1945, Milano

 

Estate

Nei mesi estivi il solleone
rende i muri così abbaglianti
che a fissarli vien sonno:
tende gialle e rosse
si abbassano sui negozi;
il nastro di cielo
che s’allunga fra due strisce
parallele di tetti
è una lamina di metallo rovente.
Dolce è non far niente,
accucciati sulle pietre roventi,
respirando il caldo.

La danza della neve

Sui campi e sulle strade;
silenziosa e lieve,
volteggiando, la neve
cade.

Danza la falda bianca
nell’ampio ciel scherzosa
poi sul terren si posa
stanca.

In mille immote forme
sui tetti e sui camini,
sui cippi e sui giardini
dorme.

Tutto d’intorno è pace;
chiuso in oblio profondo
indifferente il mondo
tace.

Vittoria Aganoor

26 maggio 1855, Italia
9 aprile 1910, Roma

Una bolla di sapone

Dell’etere tu sei

Veloce in grembo, variopinta sfera;

Un soffio a te dà l’ali,

Ti spegne un soffio; illusïon leggera,

Nulla di te rimane.

 

Larva gentile, imago

Sei tu de’ sogni e de’ pensati mondi,

Onde lo spirto è vago;

Anch’essi larve dai color giocondi

Allettatrici e vane.

 

Tu dilegui non pianta;

Ma di que’ sogni, che il pensier riveste,

Torna la speme infranta.

Perché, perché più delle tue funeste

Volgon le sorti umane?

Amalia Guglielminetti

4 aprile 1881, Torino
4 dicembre 1941, Torino

Da Le vergini folli (1907).

IL PIANTO

Il pianto è la benefica rugiada
che nell’ombra ogni nuova anima irrora.
Gioia amara di quella che s’accora
viatrice solinga in buia strada.

Quando sul suo cammin non mai dirada
la notte né il timor, s’attarda un’ora
la pellegrina e geme, e geme ancora
fin che la sua più ardente stilla cada.

Raccoglie allor le sue forze smarrite
e prosegue. Dal ciel pendono mute
le stelle, come lacrime impietrite.

Sola prosegue, col suo cuore solo.
Nè sa se le sue lacrime sperdute
daranno un fior d’amore o un fior di duolo.

***

UN’AMAREZZA

Quell’amarezza fu senza parola:
ma l’assenzio ed il fiele ed il veleno,
tutto ciò ch’è più amaro, dal mio seno
saliva gorgogliando alla mia gola.

L’angoscia che nessun bene consola
più non mi urgeva. Sol d’amaro pieno
era il mio sangue, nè veniva meno
in me quell’onda lenta eguale sola.

M’ammorbava il palato il suo sapore,
n’esalava il disgusto la mia voce,
come l’acredin d’un malvagio fiore.

Pure, un mio riso ritrovai ancora:
quel riso d’un amaro tanto atroce
che stride in bocca e l’anima divora.

***

LA MALINCONIA

Dentro le vene la malinconia
s’insinua, ed è un morbo sonnolento
cui giova non trovar medicamento,
uno stupor di morbida follìa.

Il desiderio più tenace svia,
smemora del più intenso sentimento,
quasi vapori un greve incantamento
d’oppio, in cui goda più chi più s’oblìa.

Essa è come un giaciglio, ove un’inerte
stanchezza ci abbandoni svigorite,
con le treccie disciolte e a braccia aperte.

Ed ha il torpor d’alcune notti estive,
in cui ci s’addormenta indolenzite
dallo spasimo oscuro d’esser vive.

***

ANIMA ERRANTE

Se il mio signore segue la sua via
con cuore assorto o con sereno volto,
sol con sè solo crede andar, raccolto
nel suo pensier, senz’altra compagnia.

Ed ei non vede alcuno che lo spia,
passo passo, alla sua mèta rivolto,
alcun che sta del suo cuore in ascolto
e gli parla con tenera follia.

Ecco: al suo piede un’ombra or lunga or breve
accanto o dietro o innanzi a lui cammina,
nè mai la stanca quel suo andar sì lieve.

Essa è colei che troppo sola muore,
è la notturna anima pellegrina
che persegue il suo sogno ed il suo amore.

***

CONTRASTO INTIMO

Dove un dolente amore si nasconde
un odio sordo quivi pur s’annida;
l’uno inasprisce di sue acerbe strida
l’altro smarrito fra mal note sponde.

L’odio superbo spesso si confonde
all’amor che s’umilia e che diffida,
poi che un’eguale passione guida
entrambi, ciechi, per sue vie profonde,

V’è in noi, forse, una martire che gode
del suo martirio, ed una prigioniera
che si rivolta e le sue corde rode.

L’una vorrebbe baciar quella mano
che contr’essa si fa sempre più fiera.
L’altra avventarle un morso disumano.

***

BELLEZZA DELLA VITA

Bellezza della vita, io non ti trovo.
Pure ti cerco in me, pure ti spio
su fronti di sorelle. Ombre d’oblio
or tento ed or gelosi veli io smuovo.

Il primo balenar d’un riso nuovo
scruto, m’insinuo in qualche spirto pio,
indago ogni speranza, ogni desio,
ma a scoprirti con vana ansia mi provo.

Tu esisti forse in spiriti virili
esperti in trar da ciascun fiore ebrezza,
o in chiara gioia d’anime infantili.

Non nel nostro anelar d’anime inermi:
inquete fiamme, chiuse da saggezza
d’antiche norme fra leggiadri schermi.

***

COMMIATO

Del suo primo esitar non va disciolta
pur sul tacersi la tentata lode,
chè, Sorelle, con duolo intimo l’ode
colei che si godea d’ombra raccolta.

Per senno scarso e per malizia molta
chi poco intende, assai sogghigna e gode.
Vigilava uno spirito custode
muto, il mister di vostra bianca accolta.

Pur, d’ogni velo fatta impaziente,
anime acerbe, macerate, rôse,
io vi snudai con mani violente.

Perdono io trovi. E se la mia parola
ghirlanda temeraria vi compose,
possa il suo ardire umiliar me sola.

Nori De’ Nobili – visita al museo 21 ottobre 2018

NORI DE’ NOBILI

Tra le presenze creative nella pittura marchigiana del secolo scorso spicca la figura di Nori De’ Nobili (Eleonora De’ Nobili 1902-1968) donna e artista.
La vicenda di Nori De’ Nobili si pone come emblematica del più vasto e complesso rapporto con l’arte che le donne hanno vissuto, e quasi sempre subito, nel travolgente clima culturale della prima parte del novecento in Italia.
Borghese di nascita, precocemente attiva nel campo della musica e della pittura, presto esaltata e altrettanto in fretta disillusa sulla possibilità di coniugare ricerca artistica e libertà di vita.
Nori De’ Nobili è preda del disagio psichico, del distacco tra la realtà esistenziale e l’irrealtà voluta del proprio linguaggio espressivo.
Da questo contrasto nasce quella frantumazione dell’io che caratterizza il suo io che caratterizza il suo segno pittorico, dolente e incisivo, il suo insistente ricorso all’autoritratto trasfigurato, la sua provocatoria messa in scena del mal di vivere.

da: Nori De’ Nobili nelle immagini della Comunità internazionale degli artisti. Parlamento europeo Bruxelles 25 gennaio 2005 – V. D’Ambrosio

Immagine: Chiara Diamantini

 

 

Ingresso libero

Fernanda Romagnoli

5 novembre 1916, Roma
9 giugno 1986, Roma

 

Il tredicesimo invitato

Grazie – ma qui che aspetto?

Io qui non mi trovo. Io fra voi

sto come il tredicesimo invitato,

per cui viene aggiunto un panchetto

e mangia nel piatto scompagnato.

E fra tutti che parlano – lui ascolta.

Fra tante risa – cerca di sorridere.

Inetto, benché arda,

a sostenere quel peso di splendori,

si sente grato se alcuno casualmente

lo guarda. Quando in cuore

si smarrisce atterrito «Sto per piangere!»

E all’improvviso capisce

che siede un’ombra al suo posto:

che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori.

Antonia Pozzi

13 febbraio 1912, Milano
3 dicembre 1938, Milano

 

Preghiera alla poesia

Oh, tu bene mi pesi
l’anima, poesia:
tu sai se io manco e mi perdo,
tu che allora ti neghi
e taci.

Poesia, mi confesso con te
che sei la mia voce profonda:
tu lo sai,
tu lo sai che ho tradito,
ho camminato sul prato d’oro
che fu mio cuore,
ho rotto l’erba,
rovinata la terra –
poesia – quella terra
dove tu mi dicesti il più dolce
di tutti i tuoi canti,
dove un mattino per la prima volta
vidi volar nel sereno l’allodola
e con gli occhi cercai di salire –
Poesia, poesia che rimani
il mio profondo rimorso,
oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato –
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca –
oh rifammi tu degna di te,
poesia che mi guardi.

Pasturo, 23 agosto 1934

Tove Ditlevsen

14 December 1917 Copenhagen
7 March 1976

Ci sono uomini

Ci sono due uomini nel mondo, che
costantemente m’incrociano la strada,
l’uno è colui che amo,
l’altro colui che mi ama.
L’uno è un sogno notturno
e abita nella mia mente buia,
l’altro sta alla porta del mio cuore
ed io mai gli apro.
L’uno mi ha dato un primaverile soffio
di felicità che subito dispariva,
l’altro mi ha dato tutta la sua vita
e non è stato mai ripagato di un’ora.
L’uno freme del canto del sangue
dove l’amore è puro e libero,
l’altro ha a che fare con il triste giorno
in cui affogano i sogni.
Ogni donna si trova tra questi due,
innamorata e amata e pura..
una volta ogni cent’anni può succedere
che essi si fondano in uno.

 

Adrienne Rich

6 maggio 1929, Baltimora, Maryland, Stati Uniti
27 marzo 2012, Santa Cruz, California, Stati

Ti domandi se mi sento sola

Ti domandi se mi sento sola:
Ok allora, sì, mi sento sola
come un aereo vola solo e orizzontale
sulla sua onda radio, puntando
oltre le Montagne Rocciose
verso le piste recinte di blu
di un aeroporto sull’oceano
Mi vuoi chiedere, mi sento sola?
Bene, certo, sola
come una donna che attraversa il paese guidando
giorno dopo giorno, lasciandosi dietro
miglio dopo miglio
piccole città dove avrebbe potuto fermarsi
a vivere e morire, da sola
Se mi sento sola
dev’essere la solitudine
di svegliarsi per prima, di respirare
il primo respiro freddo dell’alba sulla città
di essere l’unica che è sveglia
in una casa avvolta nel sonno
Se mi sento sola
è come la barca chiusa nel ghiaccio della riva
nell’ultima luce rossa dell’anno
che sa che cos’è, che sa che non è
ghiaccio né fango né luce d’inverno
ma legno, con quel dono di poter bruciare.

Irène Némirovsky

24 febbraio 1903, Kiev, Ucraina – 17 agosto 1942, Campo di concentramento di Auschwitz, Oświęcim, Polonia

LO SCONOSCIUTO

 Grazie a una fotografia, un soldato francese scopre che la sua vittima tedesca è in realtà il fratellastro. Il senso del racconto di guerra emerge cristallino: quando si uccide qualcuno al fronte, senza saperlo si uccide un fratello.

* * *

[estratto da pagina 27 a pagina 32]

Questa foto, la vedi? È quella che ho preso dal corpo del tedesco.
– Aspetta, caro, io non…
– Non ti ricorda niente?
François guardava la foto. Un uomo, ancora giovane, era fotografato sul pianerottolo di una casa di campagna. Una donna era vicino a lui, in piedi, una donna un po’ robusta, l’aria placida e buona, e dai capelli chiari. François esitò un istante, poi fece un sorriso forzato.
– Direi che l’uomo ti somiglia un po’,ma…
Il fratello maggiore scosse la testa.
– Non è a me che somiglia, fratellino.
Guarda bene, guarda ancora. Guarda di nuovo la sua mano sinistra. Si vede perfettamente.
Vedi la cicatrice? Quel segno profondo che dall’anulare scende fino alpolso? Deve… – continuò chiudendo gli occhi, come se stesse inseguendo un ricordo nella sua memoria – deve formare uno spesso cuscinetto, anche se la ferita era superficiale; aveva intaccato solo la carne. Però aveva lasciato una traccia indelebile. Tu sai, non è vero?, che nel settembre del ’14, lo stesso giorno in cui nostro padre fu ferito per la prima volta alla coscia e all’inguine, una scheggia di granata gli lacerò la mano e che, due anni più tardi, fu ferito una seconda volta alla testa, sopra l’arcata sopracciliare sinistra, proprio qui – disse mostrando il ritratto.
François lo esaminò a lungo senza dire niente.
– Non è possibile… – mormorò.
– Ho confrontato questa foto con tutti i ritratti di papà che nostra madre ha conservato. Ho ritrovato le radiografie di queste due ferite; quella della fronte forma una linea sinuosa, perfettamente identica a quella della foto quando la si guarda con la lente, come ho fatto. E poi, tu che hai scordato i tratti e l’espressione di papà, tu puoi esitare, ma io… È talmente lui, talmente il suo sguardo sopra gli occhiali, talmente il suo sorriso, e questa fossetta sul mento stretto, un mento come il mio, e come quello del suo terzo figlio – terminò con una strana voce.
– Sei sicuro che quel tedesco era… suo figlio?
– Ascolta, la foto porta la data del 1925 e, più in alto, vedi, con un’altra grafia, questa scritta in tedesco…
– Non sono in grado di decifrare i loro caratteri gotici.
Claude lesse lentamente, poi tradusse le parole: «Für meinen lieben Sohn, Franz Hohmann, diese Büd seines vielgelibten Vatersmöge er ihn aus der Himmlshöhe beschützen, Frieda Hohmann, Berlin,den 2 Dezember 1939». «Al mio caro figlio Franz Hohmann, questo ritratto del suo amato padre perché lo protegga dall’alto dei cieli. Frieda Hohmann, Berlino, 2 dicembre 1939».
– Si chiamava François? – esclamò il giovane –. François, come me?
– Come te, come nostro nonno, come uno dei nostri zii: è un nome che è servito molto alla famiglia. L’ha dato anche al tedesco.
François si mosse.
– Ti dico che è lui – fece Claude a bassa voce. – Pensi che, se avessi avuto anche il minimo dubbio, ti avrei mai fatto cenno di tutto questo? Ma è una cosa così… così straordinaria e così tragica. Non mi sentivo in diritto di nascondertela. Ho pensato che dopo la guerra potremmo fare delle ricerche in Germania. Le faremo insieme, se sarà possibile. Altrimenti, se ne incaricherà chi sopravvive.
François portò le mani alle tempie, prostrato.
– Mio caro, sono stordito.
– C’è da esserlo, bisogna ammetterlo – disse dolcemente suo fratello. – Non ho fatto che sognarlo tutte le notti.
– Ma, insomma, credevo che avessimo la certezza che papà fosse morto in guerra!
– Ecco come si sono svolte esattamente le cose. Venne dato per disperso il 27 maggio 1917. Fino alla fine della guerra, mamma ha sperato nel suo ritorno. Solamente dopo l’armistizio, uno dei compagni di nostro padre ha scritto e ci ha detto che l’aveva visto cadere, a due passi da lui, senza un braccio e la testa. Non si sono mai ritrovati i suoi resti. Ma pensa, in quello spaventoso tumulto, nella confusione di una battaglia, e quella avveniva proprio prima dell’alba, un giorno di pioggia, ho saputo i particolari da quella lettera che mamma ha conservato e che mi ha appena dato grazie alle mie suppliche, pensa come poteva essere sicuro di quello che aveva visto, l’amico! Ci sono stati non si quanti morti e feriti quel giorno. Lui stesso lo dice, e tutti quei corpi carbonizzati, polverizzati,
irriconoscibili… Prova a dare un nome a tutti quei poveri ragazzi!
S’interruppe e fumò per un momento la sua pipa in silenzio, voltando leggermente la testa.

© Letteratitudine